Raccontiamo
storie – i nostri sempre cari e sempre fedeli 
cani sciolti – perché dobbiamo passare con leggerezza in secondo piano. 
Già sapete
abbastanza sul nostro conto e in ogni modo non è importante ciò che stiamo facendo oppure cosa ne sarà di noi.
Ciò che
preme è dar volto alla testimonianza, ai passi, ai luoghi e alle biografie di
chi erra anche solo per un istante insieme a noi. 
Per meglio
dire, noi insieme a loro. Il nostro
mondo, il nostro lavoro.
Cosicché prendete le vostre mani, fate delle vostre dita un’immagine fantasiosa e
concreta di uno schermo, una camera da ripresa, accendete le vostre luci e
dirigetevi poco più a sud di Bali, poco più a nord di Darwin, Australia,
cliccate sullo zoom e catapultatevi a Timor Leste.
Siamo nel più giovane paese d’Asia e quando dico giovane, lo dico cercando il letterale.
Era una
colonia portoghese Timor. 
Lo era prima
di essere invaso e violato dai militari indonesiani. 
Un gioco di
potere dove chi ha perso sono le vittime dei massacri, ma questa è un’altra
storia. 
Libera e
indipendente dal 1999, Timor è una terra che non dimentica.
Laggiù dove
quello che noi italiani abbiamo costruito dal dopoguerra a oggi si è fatto in
due anni o poco più (ragioni di sopravvivenza e contingenza), nascono tanti
bambini. 
La media per
coppia varia tra gli otto e dieci pargoli. 
Questa è la storia di un funerale
avvenuto un anno dopo la sepoltura.
Dalle
terrazze bruciate che aspettano disperatamente di affogare nella pioggia di un
cielo troppo pigro  per capire che il
riso è un dono da regalare prima di natale, si imbocca uno sterrato che scende giù tra sassi e scarpate sino a un cumulo di casupole costruite con cemento,
foglie di palma intrecciate o lamiere roventi. 
(prendete fiato, non correte)
(prendete fiato, non correte)
L’umidità è intollerabile quanto il sole che picchia duro sul collo di chi si domanda come diavolo fanno i bambini a camminare dieci km per andare e dieci per tornare dal fiume che darà loro l’acqua da bollire per poi essere finalmente bevuta.
Taniche sulla testa. Taniche sul carrettino da spingere a mano. 
Sembra quasi che si divertano. E’ la normalità.
(il conosciuto)
Sembra quasi che si divertano. E’ la normalità.
(il conosciuto)
Bisogna tuffarsi nel fiume e per farlo è meglio un 4 ruote.
Durante la stagione delle piogge, Padre Locatelli, salesiano bergamasco da cinquant’anni figlio di questa terra, lo guada con un cavallo per andare a portare i sacramenti e celebrare l’eucarestia per i vivi, i morti e per coloro che si trovano in transito.
(digressione necessaria)
Superato il fiume si scala una collina di sterpaglie che hanno deciso di copiare in tutto e per tutto il filo spinato. Anche la terra vuole ricordarsi del martirio patito.
Il cimitero: meno di una quindicina di tombe artigianali perse a schema e campo libero dentro di una intima spianata tra alberi e rovi.
Oggi si
toglie il lutto e c’è tutta la comunità che ha compiuto il qui sopra citato
itinerario a piedi per l’ultimo e definitivo saluto. 
Non manca
nessuno: anziani, disabili, bambini, famigliari, intrusi e animali. Chi può sta in piedi e si avvicina all’altare improvvisato e alle due tombe interamente
ricoperte di offerte e fiori. Tutti gli altri si siedono sulle tombe degli altri in cerca della benevolenza
delle ormai troppo e palesemente colpevoli nuvole. 
In un paese
dove ci si sposa solo e soltanto dopo aver “provato”
la fertilità della donna, la vita è una cosa seria.
La morte però lo è ancor di più.
E’ il riconoscimento di ciò che si è ricevuto, la sintesi di un dono mai banale, la storia che ci identifica (noi che rimaniamo su questa e altre terre) e consacra, la narrazione che merita di essere rivissuta per illuminare le nostre così come le future generazioni.
Il peso di un anziano in Italia, il centro, il fulcro della ragione d’essere collettiva, i/l saggi/o a Timor.
Oggi, dopo un anno si saluta una coppia.
Lui e lei
che hanno detto arrivederci in modo rapido e sequenziale a una distanza di tre
mesi l’uno dall’altra. Erano La Famiglia, gente che si è spesa sino all’ultimo
per il villaggio, dal lavoro della terra alle mediazioni nei conflitti. 
Quando la morte chiama, la comunità risponde preparata.
Il primo atto è la chiamata a raccolta di tutti i famigliari. Non esiste nessuna funzione se non si è tutti al fianco dell’anima in partenza. Si aspettano giorni e settimane in attesa degli “Europei”, dei lavoratori e degli studenti.
Nel frattempo si prepara la cerimonia e poco importa se da questo primo step nascerà un debito che verrà assunto dalle successive generazioni.
La prima
messa è l’intro. Si deve celebrare la partenza. Si banchetterà tutti insieme sino all’alba. 
Una settimana dopo si bissa un po’ per certificare la finalizzazione della sepoltura, un po’ per dare via al lutto. Si bissa nella celebrazione, si bissa nel banchettare sino a tarda notte.
Una settimana dopo si bissa un po’ per certificare la finalizzazione della sepoltura, un po’ per dare via al lutto. Si bissa nella celebrazione, si bissa nel banchettare sino a tarda notte.
Dopo un’anno
ci si saluta per sempre, perché il viaggio è compiuto e a noi resta il duro
compito di portare avanti come meglio possiamo la Nostra storia.
Le tombe sono ricche di ornamenti,foto, oggetti e passioni che i defunti avevano in vita. Frutta, piatti che poi verranno mangiati all’istante alla fine della cerimonia, sigarette che verranno poi fumate da tutti gli uomini, una polvere stupefacente derivata dalla palma che verrà succhiata con una pigna verdissima dai famigliari all’ora di togliersi e gettare gli indumenti neri sul tappeto di orchidee illuminato e sciolto da una miriade di candele (un pacchetto da 12 a persona).
Infine la nenia, un lungo, infinito, straziante,incomprensibile e sordo cantico di saluto che un’anziana travolta dalle lacrime incide sulle nostre anime mentre a uno a uno, in una profonda disperazione collettiva, ci si avvia verso l’ultimo addio, l’ultimo banchetto per una comunità che da domani dovrà voltare pagina senza cancellare quanto fin’ora scritto.
Sono solo storie di coesione.
 
